Dag Tessore - Alberto Tessore
Dialogo sull’Islam tra un padre e un figlio
(Fazi Editore, 2014)
Introduzione
di Franco Cardini
Lo scenario è quello di due luoghi a modo loro simili:
la “Betlemme serafica” di Greccio, in Sabina, dove Francesco d’Assisi istituì
nel 1223 il presepio, e un villaggio dell’Alto Atlante nel quale il tempo
sembra essersi fermato, o dove comunque del suo scorrere non si tiene conto.
Due personaggi simili per tanti motivi, a cominciare dal DNA, eppure
diversissimi: padre e figlio; viaggiatore, antropologo e giornalista il primo,
filologo, arabista e islamologo il secondo; agnostico quello, credente questo.
Desiderosi di scambiarsi impressioni ed esperienze, ma soprattutto – forse – di
stare insieme, come non sempre o troppo di rado capita ai padri e ai figli. Di
capire attraverso l’altro, di aiutare l’altro a capire: non di convincere e
meno che mai di convertire.
Siamo dinanzi al resoconto di qualcosa di
effettivamente avvenuto e di puntualmente registrato: o, quantomeno, ciò è quanto
i due interlocutori/coautori ci propongono e ci chiedono di credere. Certo, si
tratta di un testo passato magari attraverso un registratore, ma comunque
rivisto e documentato. Possiamo crederci: perché no? D’altronde, non
cambierebbe granché se questo fosse un dialogo platonico fittizio, o un trattato
sotto forma dialogica, o una specie di romanzo “a due voci”. In tempi di
discussioni sul gender, non ci lasceremo certo né sorprendere né
disorientare da un testo difficile a caratterizzarsi sotto il profilo dei
“generi letterari”.
Argomento di discussione: in apparenza e formalmente,
l’Islam; o meglio gli Islam, i differenti modi d’intendere e di
praticare l’Islam attraverso il tempo e lo spazio e soprattutto oggi, in tempi
di “crisi”, di “scontro di civiltà”, magari addirittura di rinnovata fitna,
di ‘guerra civile’ (o ‘di religione’). Quindi sciiti e sunniti, Corano e
hadith, tradizione e modernità, “integralismo” e “terrorismo”, rapporti tra i
sessi e relativa gerarchia, differenti tipi di velo o comunque di copertura
delle donne e “Primavere arabe”, rapporto dell’Islam con l’Ebraismo, col
Cristianesimo e con l’indifferentismo/ateismo, globalizzazione e
localizzazione/radicamento/identità, diritti e doveri, preghiera e silenzio.
Nella sostanza, però, si parla anche d’altro. Il
problema che sovrasta queste pagine è il rapporto dell’essere umano con il
cosmo, il tempo, la “natura” (e/o il “creato”) e insomma il complesso di visibilia
e d’invisibilia che ci circonda: e, su tutto, l’insondabile eppure
onnipresente Mistero del Divino. Qui si parla della voce di Dio: della Sua
parola, affidata alla Scrittura; e del Suo silenzio.
Non credo possa sfuggire a nessuno che abbia appena un
po’ di familiarità con la problematica delle differenti “religioni” che si sono
praticate e che si praticano nel mondo, e soprattutto delle tre “fedi
abramitiche” (ammesso, e chissà quanto concesso, che il concetto latino di fides
si possa davvero fedelmente rendere con l’arabo iman e con l’ebraico
hèmunah/bittahon), lo strettissimo nesso dialettico, ma anche
antropologico e fenomenologico, tra l’insegnamento di Mosè, quello di Gesù e
quello di Muhammad, sia in sé e per sé sia nei comuni ancorché diversi e
distinti legami con la rivelazione abramitica. I due grandi problemi che in tale
contesto non si debbono lasciare da parte sono quello costituito dal rapporto
tra le tre fedi in un Dio unico, creatore e trascendente che irrompe nella
storia e i sistemi mitoreligiosi che propongono un Sacro immanente nel cosmo ed
esprimentesi attraverso miti e quello sotteso alla modernità in quanto ripudio
appunto tanto del Divino storico-trascendente quanto del Sacro mito-immanente (dixit
insipiens in corde suo: non est deus). È pertanto fin troppo ovvio che
questo libro-dialogo dalle risonanze forse anche cusaniano-erasmiane (e, qua e
là, bruniane) si apra sull’angoscioso interrogativo incentrato
sull’intolleranza religiosa dei monoteismi, sulla loro pretesa di presentarsi
come detentori di un’unica, assoluta e incontrovertibile Verità.
Ma in concreto addentrarsi in queste pagine significa,
per chiunque abbia delle religioni in genere, di quelle di segno abramitico in
particolare e dell’Islam in particolarissimo, solo qualche nozione generica e
fumosa – cioè per quasi tutti noi –, affrontare una straordinaria navigazione
in un arcipelago di migliaia e migliaia d’isolette che, viste da lontano sulla
linea dell’orizzonte estremo, sembravano una compatta e omogenea lingua di
terraferma mentre, mano a mano che la prua della nostra imbarcazione vi si
addentra e che dalla coffa dell’albero maestro diventa possibile distinguere i
particolari, si rivelano ciascuna differente dalle altre e da esse separata da
bracci di mare talora estesi. Che cos’è l’Islam? Che cos’ha veramente affermato
il Profeta? Qual è l’esatto rapporto tra Muhammad e il Corano? E come si è
andato costituendo il Libro Santo? Quanti e quali sono i precetti che perfino
qualche specialista ritiene fuor d’ogni ragionevole dubbio affermati appunto in
esso, mentre sono in realtà frutto di hadith, spesso per giunta dubbi e
contestati da molte scuole di pensiero? E che cosa prescrive sul serio la
shari’a, quali sono i limiti e quale la portata delle sue prescrizioni?
Questo libro è piamente impietoso. Il “pretesto” della
discussione amichevole tra un padre e un figlio legati da una specie di
complicità intellettuale e animati da una profonda discordia discors – è
molto divertente constatare come finiscano con il concordare su quasi tutto
senza avere un punto di vista comune quasi su nulla – ci squaderna davanti
senza pietà non solo la nostra ignoranza ma soprattutto la miserabile
inconsistenza della quale sono fatti i luoghi comuni che animano le nostre
certezze. E, badate, non solo in materia di cose come la pretesa superiorità
dell’uomo sulla donna o il “velo islamico” nella sua molteplicità di variabili,
ma anche a proposito di certe incrollabili certezze sulle quali orgogliosamente
si fonda la civiltà occidentale moderna. Ad esempio, il nesso inscindibile tra
illuminismo, con il suo spirito umanitario e la sua fede nei “diritti
dell’uomo”, e l’oppressione colonialistica, la quotidiana e sistematica rapina
che tra Cinque e Novecento ha caratterizzato il rapporto tra i “civilizzatori”
europei e i popoli degli altri quattro continenti: una rapina che non è affatto
finita, che continua sotto i nostri occhi e che obbliga tanti poveri africani
ad affrontare ogni giorno, a carissimo prezzo e in disumane condizioni, le
acque del canale di Sicilia per sfuggire alla fame di un continente dove fino a
poche decine di anni or sono vigeva quantomeno una diffusa autosufficienza
alimentare, mentre ormai da troppo tempo, sotto i nostri occhi e con la
complicità di noialtri che le sosteniamo con i nostri risparmi in banca e con
la nostra spesa nei supermarket, le lobby multinazionali – con la diffusione
della monocoltura, con le pretese di monopolizzazione a pagamento
dell’approvvigionamento idrico, con il mantenimento di un livello
intollerabilmente e ingiustificatamente alto dei brevetti dei medicinali anti-AIDS – lo stanno
distruggendo.
E dalle labili basi delle nostre cognizioni storiche e
delle nostre convinzioni intellettuali alla sconfortante miseria dei nostri
orizzonti etici il passo è breve: Alberto e Dag Tessore ci guidano sicuri, con
la loro prosa facile e piana, attraverso gli aspri deserti del disincanto.
Prendiamo i nostri abituali “capri espiatori”, Hitler e Stalin, sui quali da
decenni siamo abituati a scaricare il peso delle nostre cattive coscienze.
Ebbene: orrori come le “guerre dell’oppio” sulla Cina dell’Ottocento non li
hanno perpetrati truci fautori di oppressivi sistemi totalitari, bensì buoni e
virtuosi liberali britannici; la teorizzazione del massacro dei native
Americans non è dovuta a folli teorici di pseudoscienze a carattere
razzista, bensì a “spiriti magni” dell’umanità e dell’umanitarismo quali Thomas
Jefferson; l’ordine di sganciare bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki non è
stato proferito dal nazista Hitler, bensì dal democratico Truman; i residui
universi concentrazionari del nostro tempo (pur ammesso che davvero si tratti
solo di episodi residuali…) s’incontrano in Cisgiordania e a Guantanamo, e sono
potenze democratiche rappresentate alle Nazioni Unite a tenerli ancora in piedi
sotto il distratto sguardo di tutti noi, tanto solerti quando si tratta di
scandalizzarci a comando tutte le volte che i riflettori mediatici vengono
puntati sulle infamie di qualche “Stato-canaglia”.
Questo libro fa pensare. Fino alle ultime pagine, come
nel brano in cui Dag riflette che «la storia ci insegna che là dove le
religioni si sono eclissate o sono state represse altre forme si sono
sostituite a esse»: una considerazione che fa il perfetto paio con la massima
folgorante di Gilbert Keith Chesterton, secondo il quale appena l’uomo cessa di
credere in Dio non è che per questo non creda più in nulla bensì, al contrario,
comincia indiscriminatamente a credere in qualunque cosa, specie nelle più
aberranti. E i dubbi sono come gli esami: non finiscono mai. Dag – convinto che
troppi siano i prodotti della “civiltà” dei quali si può, anzi si deve, far a
meno – ha assicurato alla sua piccola Sofia una vita semplice e serena, vicina
alla natura, là nel remoto Atlante, lontano dalla corruzione e
dall’inquinamento: eppure Alberto ha ragione chiedendosi e chiedendogli se
questa pacifica eppure aspra educazione alla libertà (perché è libertà somma il
liberarsi dalla tirannia delle cose: come da quella di se stessi su se stessi)
non potrà un giorno divenire oggetto di rimprovero da parte di Sofia stessa,
che questa libertà non l’ha chiesta, non l’ha cercata, non se l’è scelta, ma se
l’è vista imporre, sia pure nel nome dell’amore e sulla base di profonde,
maturate convinzioni. E queste riflessioni colgono nel segno proprio in quanto
Dag, come Alberto con soddisfazione riconosce, sa rimettere in discussione le
sue convinzioni. «È la caratteristica dei liberi pensatori, il contrario degli
integralisti». Ed è la caratteristica di chiunque onestamente sappia che di
studiare e di apprendere non si smette, non si può smettere mai; e che lo
studio, l’apprendimento, richiedono una revisione continua delle nostre stesse
convinzioni. Senza questa umiltà e onestà intellettuale, non ci sono né
libertà, né etica, né cultura che tengano. Anzi, la sostanza di questo oscuro
oggetto delle chiacchiere di troppi, la “cultura”, è proprio questo: sapersi
rimettere di continuo in discussione ed essere in grado di farlo. Come poi tale
atteggiamento possa convivere, quando convive, con la fede in una Verità
assoluta rivelata, è un problema ulteriore. Non lo si può né ignorare né
aggirare. La sete di assolute certezze e la constatazione della relatività
della cose (che non è “relativismo”…) debbono convivere: specie per noi
cristiani, perennemente sospesi tra l’Ego sum Via, Veritas, Vita di Gesù
e il Quid est Veritas? di Pilato.