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Dag Tessore

Kierkegaard, o il poeta del Cristianesimo

(Ed. Lulu, 2021; 278 pagg.)

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             Questo libro è uno studio sul pensiero di Kierkegaard, partendo da un approfondito esame e commento di una delle sue opere più rappresentative, La malattia mortale.

            Søren Kierkegaard è innegabilmente una voce di primo piano nella filosofia occidentale moderna e più in generale nella storia bimillenaria del pensiero cristiano. Tutta la sua breve vita (morirà nel 1855, a soli 42 anni) fu da lui dedicata a riflettere e a scrivere sul senso della fede cristiana. E il suo discorso di fede è così profondo e penetrante che, ben lungi dal rimanere confinato alla letteratura devota, diventa a pieno titolo – come in Agostino e Pascal – un discorso filosofico ed esistenziale: «Si pensa di solito - scrive - che ciò che la fede presenta non è opera dʼarte, chʼè un lavoro grezzo e grossolano, adatto solo per le nature più sempliciotte; ma la situazione è diametralmente opposta. La dialettica della fede è la più fine e straordinaria di tutte».

            Quanto alla genesi di questo mio lavoro: lo scrissi più di venti anni fa, in forma di lettera ad un amico, Giuseppe Tedeschi. Si trattava semplicemente di una lunghissima epistola con cui cercavo di condividere con il mio amico la mia lettura de La malattia mortale. Lo stile era dunque personale, spesso impetuoso, nulla a che fare con uno studio asettico di tipo accademico. Affascinato dal libro di Kierkegaard, ma consapevole del fatto che in esso, accanto ad una filosofia profondissima e di grande valore, e accanto a brani di straordinaria potenza e suggestione, vi erano molte pagine difficili, ostiche, spesso ripetitive, decisi di riassumerlo e spiegarlo a Giuseppe, rendendolo in tal modo interessante e accessibile al lettore comune. Nel fare ciò, però, mettevo a nudo anche tutto il mio personale coinvolgimento interiore legato ad una forte – ancorché travagliata – adesione alla fede cristiana. Contemporaneamente, ci scambiavamo, io e il medesimo Giuseppe, molte altre lettere sul senso della fede.

            Il libro che qui presento è costituito da quella mia lettera-commento a La malattia mortale, alla quale ho aggiunto le mie altre lettere di argomento analogo, amalgamate in un tutto organico. Ne risulta uno scritto alquanto sui generis, che però, pur correggendolo e limandolo qua e là, ho voluto lasciare nella sua forma originale, mantenendo anche lʼuso del tu dello stile epistolare.

            Sono passati più di venti anni e se mi si chiedesse ora se approvo ancora le cose scritte in questo volume, risponderei che questa domanda non ha senso, perché non cʼè nulla da approvare o disapprovare, cʼè solamente da capire, penetrare in un orizzonte di fede, immedesimarsi in qualcosa. Studiamo un fenomeno, quello della fede, e per studiarlo e comprenderlo in profondità bisogna entrarci dentro. «Trovo interessante – per usare le parole di Kierkegaard stesso – immedesimarmi in questo modo in una situazione altrui senza dovere sacrificar nulla della mia propria quiete; accendo la pipa» e mi siedo in poltrona a leggere, e sprofondo in quel mondo della fede, come ci si immedesima in un romanzo.

            Il lettore pertanto troverà stratificazioni di pensieri e di concezioni della vita fra loro alquanto diverse. Questo libro è un accavallarsi impetuoso di onde, di cui lʼuna travolge lʼaltra, lʼuna si confonde nellʼaltra, lʼuna diventa lʼaltra: è un intrecciarsi, lottare, abbracciarsi, divincolarsi di pensieri e di passioni. Va letto come si ascolta una sinfonia di Bruckner. E va letto con la pazienza di chi va in cerca di aquile: non si ferma dopo dieci pagine dicendo: “Non è la cosa che fa per me, sembra un testo di un autore devoto”, perché proprio là dove tutto sembra navigare stabile e pacifico, improvvisi vortici trascinano al fondo e tempeste inattese rovesciano la nave. Eʼ tutto un gioco di contrasti, dove nulla è stabile e al sicuro, e dove la stessa mano che ci guida lungo i sentieri della fede ci accoltella alle spalle.

            Questa è una caratteristica non solo del presente scritto, ma delle opere stesse di Kierkegaard. Egli diceva: «Lasciamo pure alla gente saputa lʼorgoglio di non cader mai in contraddizione»; i suoi libri sono come quadri, tra i quali non ha senso dire che uno contraddice lʼaltro, anche se rappresentano realtà diverse. E proprio per questo egli scelse di pubblicare gran parte dei suoi libri con pseudonimi. Inventò così dei personaggi distinti, ognuno autore di un libro e di un differente approccio alla realtà e alla fede. Lʼautore de Il concetto di angoscia è Vigilius Haufniensis, di Briciole di filosofia è Johannes Climacus, de La malattia mortale è Johannes Anti-Climacus. Così, dietro lʼapparente serietà estrema e tragicità di questi scritti, si cela in realtà un “divertissement” letterario, come se si trattasse di differenti personaggi di un romanzo che interloquiscono. Usare pseudonimi, infatti, relativizza la verità, ci dice che la verità può essere di volta in volta diversa e che essa è solo un gioco di caleidoscopio. Ogni cosa può essere detta altrimenti, può essere vista da angolature diverse, opposte. La verità è molteplice, ha molte facce, come Kierkegaard stesso ha molte “anime”: è sia Climacus che Anti-Climacus, è sia lʼautore di ispirate pagine piene di Vangelo, di fede e di abbandono a Dio, che di pagine impregnate di aggressività quasi demoniaca contro Dio e la religione.

            Pur avendo al centro della sua riflessione il senso della fede e dellʼessere cristiani, «io non mi spaccio – dice Kierkegaard – per cristiano». Anzi egli si definisce semplicemente «un umorista»! Tutta la sua scrittura è pervasa da questa ironia. Anche quando parla delle tematiche più cupe dellʼangoscia, egli rimane nel profondo un umorista, un giocoliere, un poeta, profondamente conscio che di Dio e del Cristianesimo, in ultima analisi, non si può parlare, e allora ogni cosa che se ne dica è solo un gioco. Climacus ne parla a suo modo, Anti-Climacus in un altro modo, e Kierkegaard stesso finisce per essere anche lui solo uno pseudonimo. «Non ho unʼopinione né desidero averne una».

 

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